Primo capitolo intero de "il Signore dei Corvi"!
Sven si alza a fatica. La testa gli fa male e perde sangue. Ha ricordi confusi ma lentamente la memoria comincia a tornargli. Dev’essere rimasto svenuto per un po’, probabilmente ore. E’ letteralmente coperto di sangue, le pelli che lo coprono, le brache e gli stivali sono quasi neri, sebbene in origine fossero marroni come il cuoio di cui sono fatti. Ha perso il mantello e anche la spada.
L’uomo, capelli lunghi e castani incrostati di sangue rappreso, si guarda intorno: i resti della battaglia giacciono sparsi in ogni direzione, lungo tutto il campo visivo. Cadaveri, interiora, corvi, donne in lacrime sui corpi dei propri cari. Anche se gran parte del sangue di cui è coperto non è suo, si accorge di avere una ferita alla testa.
L’uomo si muove come uno spettro per il campo di battaglia, debole e barcollante. Proprio non ricorda nulla di prima della carneficina, ogni forma di pensiero è lenta ad emergere dal dolore. Sven raggiunge il fiume, guidato dal frastuono delle acque impetuose. Si china e si lava il viso, nella speranza che l’acqua gelida possa schiarirgli le idee ed eliminare parte del torpore che lo avvolge.
La battaglia è stata cruenta ma le ferite subite hanno reso i dettagli confusi. Ha del sangue tra i lunghi capelli castani ed un pezzo di elmo ancora pende, in qualche modo imbrigliato dietro la schiena ad una ciocca di capelli. Tirandolo, per liberarlo, viene via un piccolo ciuffo castano: il pezzo di elmo è spezzato e piegato, forse da un colpo d’ascia. Sven inarca le sopracciglia e torna a specchiarsi nell’acqua: la ferita non è profonda ma la botta, sebbene ridotta dall’elmo, deve aver fatto qualche danno, perché i suoi ricordi sono ancora avvolti dalla nebbia, quasi quanto l’ambiente circostante, che è avvolto dalla bruma del mattino.
Per chi stavo combattendo? pensa il grosso, muscoloso guerriero. Chi ha vinto? Tenta di muovere una mano, poi l’altra. Accenna dei piegamenti e prova, circospetto, ogni articolazione: nessun danno permanente, ha solo la ferita alla testa, che gli lascerà una cicatrice evidente. Poteva andare peggio.
Sven sputa in terra. Sangue e anche un pezzo di molare, forse la fonte del dolore.
“Donna!” L'uomo chiama una delle vedove piangenti nei pressi. “Dimmi: chi ha vinto la battaglia?”
La donna, inginocchiata nei pressi di un cadavere, lo osserva. Ha il lutto negli occhi, tra le braccia la testa martoriata del figlio, il cui corpo giace inerme, l’armatura di cuoio coperta anelli di ferro spaccata in più punti, nessuno stemma riconoscibile.
“I mercenari,” dice la donna, con uno strano accento.
Sono nelle valli di Narvic, pensa Sven, riconoscendolo.
“Al soldo di chi?” chiede il guerriero. Ma la donna è tornata a piangere il figlio e lo ignora.
Sven raccoglie la prima arma in condizioni decenti che trova nei pressi, controlla la piccola borsa col denaro che ha alla cintura e si incammina verso il limitare del bosco, diretto al borgo che scorge appena, tra il fumo e la densa foschia.
***
“La magia? Non esiste,” dice il mago, un uomo sovrappeso di mezz’età, capelli e barba grigi, la tunica larga e tinta del color della notte. Allo sguardo perplesso da parte degli Accoliti del Tempio, che accoglie la sua affermazione, spiega: “Davvero: non esiste. Solo l’ignorante crede nella magia ed il fatto che molta gente ci creda significa esclusivamente che gli ignoranti sono molto numerosi. Cosa che rende la Conoscenza ancora più potente, ancora più magica. Il mago sa, il mago pratica la Scienza, non la magia così come viene intesa dalla gente. Non esistono energie innate, forze che sviluppano calore dalle mani, prana, e simili sciocchezze. Luci e gesti stravaganti servono a coprire l’uso della Scienza. Perché se la gente si rendesse conto di cosa sta davvero dietro le porte del tempio che si aprono automaticamente o la statua del dio che parla o la preveggenza, non ne avrebbe più rispetto. Così quando leggo il futuro devo aprire un capretto e scrutarne le interiora. Ma ciò che faccio davvero non ha nulla a che fare con la povera bestia. Ciò che faccio davvero è usare il pensiero e sfruttare la Conoscenza. Il resto è un banale trucco per darsi credibilità agli occhi degli stolti. Il vero Mago è scienziato e attore al medesimo tempo, perché entrambe le cose sono indispensabili, l’una senza l’altra vi fa sembrare ciarlatani agli occhi della gente, anche se sembra paradossale l’immagine è tutto.”
“Maestro,” interviene uno degli Accoliti, ancora non convinto delle sue argomentazioni. “Al tempio abbiamo assistito ai miracoli del dio...”
“Far vedere un cieco? Far camminare uno storpio? Ridare la vita a un morto? Far piangere una statua?” interviene il Mago. “Vi siete mai chiesti come mai i miracoli non fanno mai ricrescere un arto, che so, una mano o un braccio o un occhio? Se il dio è davvero onnipotente, perché non accade mai? Il Sacerdote non è molto diverso dal Mago, ma noi non pretendiamo di intercedere per conto di un dio.”
“Ma... Ma... Tutto ciò è blasfemo!” grida, alzandosi, uno degli accoliti.
“Se è blasfemo, come dici tu, perché il dio onnipotente del tempio non mi fulmina qui e adesso? Oh, certo, perché mi punirà col tempo, perché le sue vie sono misteriose... Se sei convinto di quello che dici, non sei adatto a stare qui. Puoi andare al tempio e diventare Novizio. Ma se non verrai accolto tra loro, una volta al corrente di questi... segreti...” dicendo queste parole l’uomo ridacchia, come se fossero tutt’altra cosa, “...non vivrai a lungo: la corporazione ti ucciderà, dando a te del blasfemo, dell’impuro o qualcosa di simile. Le corporazioni dei maghi, le caste religiose, le gilde di avventurieri e le organizzazioni criminali non tollerano le defezioni.”
Il grasso mago si volta verso lo scarno uditorio. “No,” prosegue, “non vi conviene abbandonare la strada della Conoscenza. La Conoscenza è potere. E’ rispetto. Ed è più facile sopravvivere con la Conoscenza che con la forza bruta, nonostante i bulli che vi hanno sempre vessato la pensino diversamente. Ma le loro vittorie durano il tempo di una rissa, i loro miseri guadagni durano pochi giorni e le loro schiene si spezzano dalla fatica entro pochi anni. Il vostro futuro, se imparerete bene, è ben diverso, lo vedete ben voi stessi.” Dicendo così il mago si colpisce la pancia prominente con una mano. “Ma dovrete studiare: un mago insipiente è un morto che cammina. O finisce negli angoli di una strada a leggere la mano o a fare le carte. Se fosse un mestiere facile tutti saprebbero farlo. Bene,” prosegue, senza attendere interruzioni, “da oggi sarete nelle mani degli Scribi: imparerete a leggere, a scrivere, a calcolare a mente senz’abaco. In due anni, il migliore di voi cinque verrà scelto per diventare Mago, gli altri potranno diventare Scribi o Sapienti o Bibliotecari o Ricercatori, dipenderà da voi e dalle circostanze. Datevi da fare, ora!”
Il grasso mago esce dalla sala di legno e pietra della Corporazione e fa un cenno allo scriba, che entra e distribuisce tavolette di cera e degli stilo per scrivervi sopra. “Oggi impareremo le lettere dell’alfabeto,” dice ai cinque giovani uomini ancora un po’ frastornati dal discorso.
***
Quando Sven raggiunge l’abitato, la prima cosa che lo colpisce è la puzza. Provenendo dal campo di battaglia e dall’odore di morte, persino il tanfo degli animali e dello sterco è un miglioramento. La cittadina fortificata è arroccata su una bassa collina, al centro di una valle tra le montagne. Le mura merlate, perfettamente verticali, sono di roccia e mattoni, edificati con la cura possibile in un luogo di frontiera. L’occhio professionale di Sven, veterano di molte battaglie, gli dice che basterebbero un paio di catapulte o un trabucco ben posizionati per averne facilmente ragione. Dal borgo si dipana una strada, che procede verso nord e verso sud, lungo la valle. In distanza scorge delle torri, apparentemente ad un giorno di cammino da qui.
La strada per Zaklia, probabilmente, si rende conto, osservandola. Il borgo è intatto, chiunque abbia combattuto e vinto stava difendendo questo posto.
Il suo giudizio viene confermato giungendo a ridosso delle porte di ingresso della città. Due guardie sorvegliano l’andirivieni dei carri che trasportano i cadaveri dei caduti, trainati da padri, madri e vedove. Sven, sporco di sangue rappreso in gran parte non suo, viene esaminato sommariamente. Una fascia di cuoio avvolta intorno al polso sinistro è ciò che cercano. La sentinella, il volto segnato dalla stanchezza e diverse ferite lievi qua e là per il corpo, gli fa cenno di passare.
Le strade non sono meglio del resto. Il borgo di Narvic è fatto di tante, sporche case di legno e mattoni, addossate le une sulle altre, con una fangosa via principale in asse con la strada nord-sud e stretti vicoli a collegare i vari nuclei abitati. Addossata alle mura v’è una cittadella con un’ulteriore cinta fortificata, meglio costruita, grigio ardesia, che spezza il rosso mattone ed il marrone legno che è il colore tipico dell’abitato e della cinta muraria esterna. I mercanti affollano le strade, sebbene i clienti non siano numerosi: ogni dove i sacerdoti benedicono le salme dei caduti, che entrano in città in una lenta e penosa processione di carri e animali da soma.
Sven va verso la cittadella e la chiesa di mattoni a ridosso delle mura interne. Qui giunto chiede a un guaritore del tempio di poter essere curato. La sua ferita viene esaminata, il ragazzo gli lava via il sangue e spalma un balsamo catramoso. Poi gli porta una mano davanti agli occhi e gli chiede di fissarla, la muove a destra e a sinistra, gli fa contare le dita. Sembra soddisfatto delle sue risposte, in una strana, asetticamente professionale maniera. Poi gli guarda in bocca e gli dice che deve estrarre la restante parte del molare rotto. Il ragazzo somministra dell’oppio a Sven, e l’omone si accorge, nello stordimento, dello strano ferro che l’altro gli mette in bocca per scalzare quanto resta del dente.
E’ quasi ora di pranzo quando Sven si sveglia. La bocca gli duole, e così la testa. Ma meno di questa mattina. L’uomo è ancora nel tempio, intorno a sé non c’è nessuno e non ha più monete nel sacchetto, ma sa che le ha prese il guaritore. Nel frattempo ha recuperato un’altra parte dei ricordi: ha combattuto per il Barone di Narvic, ma non ricorda ancora contro chi. Sa, però, che il contratto finisce con la battaglia appena conclusa. Forse una guerra con la baronia di Zaklia. Ma non è importante.
Il guerriero si alza, raccoglie le sue cose e si avvia verso la cittadella. Le due guardie all’esterno dell’area fortificata lo fermano.
“Alt! Cosa vuoi, straniero?” dice uno dei due, l’armatura riparata in più punti, la barba grigio ferro ed il volto segnato dal sole e dalle battaglie. Un veterano.
“La mia paga,” gli risponde Sven. “Sono sopravvissuto ma gli sciacalli mi hanno preso quasi tutto, tranne questo,” dice indicando la spada, peraltro non sua.
Il veterano fa un cenno all’altro, che bussa alla porta del mastio della cittadella, entra e sparisce all’interno per alcuni minuti. Quando ne esce ha in mano un sacchetto chiuso dalla ceralacca, che porge a Sven.
“Il mastro d’arme porge il saldo,” dice l’uomo, dandogli il sacchetto. “E chiede il tuo nome.”
“Sven,” dice il guerriero. “Sven Thorson.”
La guardia sparisce nuovamente all’interno delle mura ma Sven non attende che torni all’esterno. Si volta e si incammina lungo gli stretti vicoli di Narvic, in cerca di un luogo dove mangiare.
“Hai voglia di compagnia, straniero?” lo chiama una voce femminile.
Sven si volta e vede una ragazza poco più bassa di lui, dai capelli color miele e dall’abbigliamento discinto (al punto da avere più pelle scoperta che coperta) chiamarlo dall’androne di un edificio. “Dipende,” risponde il guerriero, “da cosa offri.”
“Cibo, idromele e piacere, per dieci corone d’argento.”
“Facciamo cibo e idromele, per ora, e ti do quattro corone. Se c’è anche un letto per dormire facciamo cinque. Per il piacere, vediamo dopo.”
“Entra.” La ragazza scosta la pesante tenda di velluto rosso e Sven si trova in un ambiente caldo e profumato di incensi aromatizzati combusti. La ragazza gli fa strada verso un’alcova, lo fa accomodare su un consunto divanetto rivestito di pelle morbida, che un tempo era senza dubbio lussuoso, e chiude le tende. Porge la mano, palmo aperto verso l’alto. Sven apre il sacchetto e ne estrae una moneta d’oro. La mette sul palmo della ragazza che lo guarda e gli dice: “Sei sicuro di volere solo vitto e alloggio e non del piacere?” Gli mostra altra pelle chiara ed accenna una mossa di danza del ventre. Nell’ambiente aleggia una musica soffusa, rilassante. Il guerriero non vede dov’è il suonatore di mandola, probabilmente occultato in un’altra alcova.
“Per una moneta d’oro potrei stare qui giorni interi. Dammi indietro dodici corone d’argento e fammi sognare,” le dice, contrattando. Una moneta d’oro vale venti corone d’argento.
“Se vuoi sognare, sono dieci corone.” La ragazza non scende di prezzo, ma gli piroetta davanti, gli si avvicina col viso e gli gira intorno, sfiorandolo appena.
Sven è molto stanco. “So già che me ne pentirò,” le dice. “E sia. Qual è il tuo nome?”
“Liona,” risponde lei, i lunghi, perfetti capelli color del miele sciolti sulle spalle si muovono leggermente, come se l’ambiente fosse in qualche modo ventilato.
Sven è ammaliato dai suoi occhi grigi, dal suo sorriso senza tempo, dai bei lineamenti, dai tatuaggi che coprono gran parte della sua pelle candida, dai diversi piercing a naso, labbro inferiore, orecchie... Che sono a punta, nota solo ora il guerriero.
“Liona... Non è davvero il tuo nome, vero?” chiede l’uomo.
“Quello vero non saresti in grado di prununciarlo, comunque. Ma da molto tempo ormai sono Liona,” risponde la donna. Dopo averlo fatto sedere, sparisce da qualche parte. “Torno subito col tuo pranzo,” gli dice.
Pochi minuti dopo ricompare con un piatto di carne e legumi e una caraffa di idromele e glieli poggia davanti, sul basso tavolo di fronte al divanetto. Gli porge dieci monete d’argento ed anche un coltello ed una forchetta metallici, cui per la verità Sven non è molto abituato. “Le posate vanno restituite a fine pasto,” lo dileggia lei. Il guerriero sorride di sghincio, scuotendo leggermente la testa, divertito, nonostante il dolore.
La carne è tenera, i legumi saporiti e l’idromele forte come il tuono. Sven mastica come può, si rende conto di aver sopravvalutato la propria mascella martoriata dall’intervento estrattivo del guaritore. Ma la fame gli fa mangiare tutto con gusto, spesso masticando appena. Presto il guerriero dà un’altra moneta d’argento alla ragazza e le chiede: “Dell’altro idromele, ho una sete che mi spacca e un martello dentro la testa!”
Bevuto un sorso dalla nuova caraffa, la ragazza dai capelli color del miele gli chiede: “Vuoi riposare ora, o vuoi subito il piacere?” Le mosse sinuose che sottolineano la frase provocano nel guerriero una reazione istintiva di passione. L’uomo la chiama a sé, la prende tra le braccia e la bacia con fervore. Ha un sapore come di mandorle e spezie. Si divincola appena, ma rinuncia quasi subito. Le forti mani di lui le slacciano il succinto abbigliamento, senza fatica.
La sua pelle color miele è morbida e, mentre i due si congiungono, Sven si perde completamente in lei, come gli succede quasi ogni volta, dopo una battaglia.
I due giacciono insieme per un’ora. Sven la prende più volte, gode nel sentire i piccoli seni sodi sotto il suo tocco, ne esplora ogni anfratto, la bacia ovunque con passione.
“Sei bella,” le dice. Lei ringrazia e gli sorride stancamente ma dolcemente.
Quando è ormai sfinito, Sven si rilassa sul divanetto e si addormenta.
***
“Si faccia avanti Hektar il Mago!” dice la voce tonante dell’araldo. Il grasso mago barbuto, avvolto nella sua grande tunica nera, si fa avanti, esce dalla folla in udienza al Duca e accenna ad un inchino.
“Vieni avanti, mago,” dice una voce cavernosa, che proviene dall’anziano Sir Knut, Duca di Peylan. Hektar avanza ulteriormente, fino alla mattonella sul pavimento che sa essere il punto più vicino cui gli è concesso avanzare.
“La fama dei tuoi poteri è notevole, Hektar Henriksdal,” dice il Duca.
Hektar si inchina, appena un po’ più profondamente ma, come il suo rango gli permette, non molto, a conti fatti. “Vostra grazia mi onora,” dice.
“Mi sono giunte voci di trame oscure nel Nord, al confine con Tiros,” procede a spiegare il Duca. “Voglio che tu vada a indagare. Di cosa abbisogni?”
“Solo due cavalli, un valletto e i miei libri, vostra grazia,” risponde Hektar.
“E sia,” dice il Duca. “Sia disposto così. Dategli il lasciapassare ufficiale di Inviato Ducale, un valletto, due cavalli di sua scelta, cento ducati d’oro per le prime spese di viaggio e credito illimitato, a giustificarsi a missione conclusa.” Detto questo, il Duca si alza ed esce dalla sala.
Un cortigiano si avvicina a Hektar, gli porge un sacchetto di monete, di moderate dimensioni, e gli dice: “Domattina all’alba al Cancello Settentrionale i cavalli saranno pronti. Se ha una preferenza per il valletto, ce lo faccia sapere.”
Hektar scuote le spalle. “Uno vale l’altro, deve solo servirmi.” Fa per andarsene, poi pare ripensarci. Si volta e dice: “In effetti... Se ci fosse qualcuno in grado di comprendere un’altra lingua, potrebbe tornarmi utile. Tirosiano o la lingua del Nord, preferibilmente.”
“Senz’altro,” il cortigiano si disimpegna con un profondo inchino.
Hektar lascia il Palazzo Ducale, un grande edificio a metà tra la fortezza ed il sontuoso. Peylan, la capitale fortificata dell’omonimo ducato, è grande e disordinata. Le recenti guerre nel nord hanno portato la Città Santa della Piana a crescere di dimensioni. Intorno al nucleo centrale, antico e cintato da alte mura, ora si sono formati sobborghi simili a vere e proprie baraccopoli popolate di profughi e fuggitivi. Mentre il mago si muove attraverso i vicoli della Città Vecchia, viene di volta in volta adescato dalle prostitute delle Case del Piacere, richiamato dai tavernieri ed invitato dai mercanti ad osservare la loro merce nelle botteghe. Ma Hektar, oggi, non è interessato alle loro mercanzie. Sta cercando una bottega in particolare.
Quando trova l’insegna di legno con l’alambicco e la foglia che indica lo Speziale, il mago entra. Lo speziale è un uomo grasso quanto lui.
“Karl, Ho bisogno di un po’ di fornitura,” dice Hektar.
“La solita?” chiede il grasso speziale. Anche lui, come Hektar, porta il simbolo della Corporazione dei Maghi. “Non è da molto che sei venuto, spero di avere tutto.”
“Sì, ma ho bisogno di qualcosa di più,” il mago porge una lista scritta su carta.
Lo speziale esamina la lista. “Non so se ho tutto, ci sono molte cose e tutte molto particolari. Mando il conto a te o alla Corporazione?”
“A Palazzo,” dice il Mago, d’impulso. Poi cambia idea. “Anzi: alla Corporazione, penseranno loro a mandarla a Palazzo.”
“Come vuoi. Ti faccio consegnare tutto entro stasera, alla Corporazione,” gli dice lo speziale.
“Molto apprezzato,” risponde Hektar. “Starò via qualche giorno, non so quando avrò bisogno di nuovo dei tuoi servizi. Se hai bisogno di contattarmi, rivolgiti al Maestro Nordaal.”
Il mago esce dalla bottega e torna alla Casa della Corporazione, un palazzo fortificato dall’altro lato della Città Vecchia.
La missione ufficiale di Hektar inizia la mattina presto, con la visita ufficiale al Patriarca di Peylan a consolidarla con la benedizione ufficiale. Il mago sopporta in silenzio la tediosa cerimonia. Di fianco a lui Jon, Mastro della Corporazione, gli si avvicina e gli bisbiglia: “Interessante vedere un miscredente come te al Tempio. Non temi la sua ira?”
“Se il dio è buono come dice il Patriarca, saprà leggere dentro di me e non avrò nulla da temere nell’aldilà,” risponde Hektar. “Se invece è il demone sanguinario che gli antichi ritenevano fosse, preferisco non dargli potere adorandolo.”
La funzione termina dopo un’ora. Un serafico Hektar sale a cavallo, sul quale sono già presenti le bisacce fornite dallo speziale. Un secondo cavallo ospita il valletto ed il resto dei bagagli, per la verità non moltissimi.
“E’ sicuro di non volere una scorta, sir Hektar?” gli chiede il valletto. Normalmente gli inviati portano con sé una decina di armigeri, animali da soma per i numerosi bagagli e diversi servitori.
“Certissimo,” risponde il Mago. “A difenderci penserà soprattutto la mia reputazione di Mago. Se non bastasse, ci sarà la mia abilità. E in ogni caso, più leggeri saremo, meno appetibili sembreremo ai banditi. Riconoscendomi, sapranno che il gioco non vale la candela. Comunque niente sir, non sono Cavaliere.”
“E’ molto sicuro di sé... Eminenza,” dice il valletto.
“Eminenza?” ride Hektar. La sua risata è fragorosa. “Non c’è nessuna eminenza, qui. Su, andiamo o faremo notte per strada, il Patriarca ci ha fatto già perdere sin troppo tempo.”
I due attraversano le porte a settentrione della città e si inoltrano nei sobborghi fangosi e nelle strade sporche di liquami della baraccopoli.
“Le guerre, su a nord, stanno producendo morti, profughi, povertà e distruggono il commercio,” dice Hektar al valletto, mentre viaggiano. “Se fossi io il Duca pacificherei con l’esercito tutti i feudi settentrionali e sostituirei quella massa di idioti con degli ufficiali fedeli. Basterebbe non fare nulla perché l’economia cresca da sola, ma loro riescono a fare di tutto per rovinare, in buona fede, qualsiasi cosa. Ma non sta a me decidere, la nostra missione è differente. Tu parli qualche lingua?”
“La mia famiglia è originaria di Narvic, parlo la lingua del nord,” dice il valletto.
“Potrà tornarci utile. Come ti chiami?”
“Galman, signore.”
“Bene, Galman. Mi sembri un ragazzo sveglio. Obbedisci alle mie istruzioni e ne verremo fuori bene.”
Il Sole che volge a mezzogiorno vede i due finalmente raggiungere il margine della Foresta di Elsevereth, limite settentrionale delle estese baraccopoli intorno alla città. Il mago si volge a guardare Peylan e dice: “Era ora che riuscissimo a lasciarci tutto quel fetore alle spalle. Preferisco rischiare lupi e banditi che le malattie portate da quella che tutti pensano essere la civiltà. Sai cos’è davvero la civiltà, Galman?”
“Non saprei, signore. Ricchezza, benessere e infrastrutture?”
“Risposta interessante,” dice Hektar, squadrando il valletto con attenzione. “La vera civiltà è fatta di infrastrutture, di progresso culturale e di commercio... Ciò procura effettivamente un aumento del benessere, a patto che le infrastrutture comprendano strutture igieniche. E a quanto pare, Peylan ora come ora ha un serio problema sotto questo aspetto.”
Seguendo la strada, i due si inoltrano nella foresta, diretti a nord.
“Sono due corone d’argento supplementari, straniero.” La voce, un po’ stridula, sveglia Sven. Una vecchia sdentata, con in mano una scopa, lo guarda da vicino. E’ mattina presto, la luce del sole filtra bassa dalle finestre, tra le pesanti tende, spandendo colori accesi sul soffitto.
“Vai via, vecchia, non ti darò nulla,” le dice il guerriero.
“Hai dormito tutto il giorno e tutta la notte, devi pagare il supplemento,” insiste lei.
Tutto il giorno e tutta la notte? pensa Sven. In effetti dall’esterno comincia a filtrare la luce del mattino ed era ora di pranzo quando è entrato nella Casa del Piacere.
“Dov’è Liona?” chiede.
“E’ al lavoro, come la schiava che è,” la donna non nasconde il suo disprezzo.
“Cos’ha che non ti piace?” le chiede l’uomo.
“Quella strega maledetta dalle orecchie a punta non invecchia,” gli risponde lei. “Quando arrivai qui, ero giovane e bella. Ho lavorato sodo e messo da parte qualche soldo. Ero davvero molto bella, te lo garantisco, mica la vecchia sdentata che sono ora. Mi sono sposata con un bel carpentiere, che riscattò il mio prezzo, e ho messo su famiglia. Poi mio marito è stato assassinato, mio figlio maggiore, quel cretino, si è mangiato tutti i soldi ed è stato arruolato da qualche parte, a sud. Sono stata costretta a vendere mia figlia minore agli schiavisti, ma non era bella come me e non riuscirà a riscattarsi, e non ci ho nemmeno fatto un granché. Così io, vecchia, senza un soldo e senza più nessuno al mondo, sono qua che spazzo i pavimenti per pochi spiccioli. Invece Liona è identica al giorno in cui entrai qui, quarant’anni fa, come se non fosse cambiato nulla.”
“Anche Liona è bella,” dice Sven. “Com’è possibile che non si sia ancora riscattata?”
La vecchia scoppia a ridere, la sua bocca sdentata una grottesca caverna rosa. “Secondo te la Corporazione che gestisce questo bordello rinuncerebbe ad una ragazza così bella che non invecchia mai? Non scherzare: nessuno si può permettere il prezzo del suo riscatto!”
“Un nobile potrebbe,” interviene il guerriero.
“Sì, è vero,” concede lei. “Ma quale nobile si impegnerebbe per una strega elfa? Non importa quanto sia bella, quella è una razza maledetta! Inoltre se la vogliono, gli basta venire qui di nascosto. I nobili vengono sempre qui in incognito: loro devono salvare le apparenze, mica come te, cafone di un barbaro. Allora, vuoi darmi il supplemento o no?”
“Sloggia, vecchia. Se continui a insistere ti pagherò col ferro,” minaccia Sven. “Mandami qualcuno che abbia i denti, piuttosto, e almeno la metà dei tuoi anni, anzi, meno, se possibile. E magari delle belle cosce.”
Brontolando e insultando, infine la donna si allontana.
“Io non ho la metà dei suoi anni,” dice una voce, da dietro la tenda. “Va bene ugualmente?”
“Liona?” chiede Sven. La tenda si scosta e la splendida prostituta schiava dai capelli color del miele riappare. Solo ora l’uomo nota che tra i suoi tatuaggi vi sono i nomi dei proprietari che l’hanno posseduta. “Hai cambiato molti padroni, schiava. La vecchia dice che sei qui da quarant’anni almeno.”
“Ho cambiato molti, troppi padroni. Sono schiava da prima che la vecchia nascesse.”
“Dimmi: hai imparato, in tutto questo tempo, qualcosa che potrebbe valere un intero ducato d’oro?”
“Ti invidio, uomo libero,” gli dice Liona. La ragazza si slaccia gli indumenti e si china su di lui.
Sven le afferra un braccio e la trascina a sé. “Non invidiare la mia libertà,” le dice. “E’ fatta di sangue, stenti e violenza. Ogni mio giorno potrebbe essere l’ultimo.”
“Non sottovalutare l’attrattiva di poter decidere del proprio destino,” dice lei, baciandolo.
Al guerriero piace tenerla tra le braccia, gli piace il suo profumo. Fatto di essenze e dell’odore quasi speziato, esotico, della sua pelle. “Perché,” le chiede, tra un bacio e l’altro, “non sei mai scappata?”
“Ho provato, diverse volte,” gli risponde lei. “La Corporazione mi ha sempre ritrovata. La terza volta che scappai, riuscii a far perdere loro le tracce per due anni. Quando mi catturarono, a centinaia di leghe da qui, la tortura che seguì durò tre mesi interi, giorno e notte. Da allora sono passati trent’anni e non ho più tentato di scappare.”
“Non ha lasciato segni sul corpo.”
“Ci sono torture che lasciano cicatrici sul corpo, che vanno bene per gli schiavi delle miniere, cosicché servano da monito per gli altri. Ma farlo sulle schiave della Casa del Piacere significherebbe ridurne il valore e io sono la Schiava Eterna, per loro. Non hanno lasciato segni sul mio corpo ma ci sono cicatrici che si portano dentro e che nulla potrà mai guarire.”
Gli occhi di Liona si fanno distanti ma la ragazza non si scosta e quasi i suoi gesti fossero automatici, sale in braccio a Sven. L’uomo sente il suo pube a contatto con le sue brache e sente il desiderio crescere.
“Dimentica i tuoi crucci e fammi sognare, schiava eterna,” le dice.
***
La vasta radura che precede la collina su cui sorge il borgo di Narvic puzza di morte. Stendardi, frammenti di armatura, vaste macchie rosse sull’erba, membra e interiora ingombrano ancora la piana.
“Questa, caro Galman,” dice Hektar, contemplando la scena e portandosi una mano a proteggere bocca e naso, “è quella che questi rozzi baroni del nord chiamano Civiltà: sangue, morti, devastazione. Io dico che è solo violenta stupidità.”
Il valletto non dice nulla.
Il sole sta tramontando quando i due viaggiatori entrano in Narvic, e sono costretti a mostrare il lasciapassare alle sentinelle dietro la grata di ingresso.
“Aprite i cancelli all’inviato ducale!” ordina il capoposto agli addetti al verricello.
La grande, pesante, rugginosa grata metallica viene sollevata. Hektar e Galman fanno il loro ingresso nel tetro borgo in cui lutto, odore di sterco e di cadavere aleggiano ovunque.
Uno dei soldati li precede, a passo di corsa, verso la Cittadella.
“Questo è il potere della Parola Scritta, caro Galman.” Il mago sembra trattare il valletto come fosse un suo allievo. “In questo mondo in cui pochi sanno di lettere, un pezzo di pergamena imbrattato di inchiostro è così magico da valere più di tutto il denaro che portiamo con noi. Ci darà rispetto, cibo, onori. La parola è potere. Questa è una forma di Magia, se vogliamo.”
Nella cittadella trovano il Siniscalco a riceverli. L’anziano cavaliere veste ancora l’armatura di maglia di ferro sopra un corpetto di cuoio. L’uomo li riceve nella sala d’armi, che puzza di sudore e sangue.
“Lord Siniscalco,” saluta Hektar.
“Cosa posso fare per voi?” chiede l’uomo. “Al momento attuale...”
“Lo so,” lo interrompe il mago. “Ho guardato il futuro con le mie Arti. Il Barone e l’esercito stanno inseguendo le forze di Zaklia, le raggiungeranno domani e ne avranno ragione. Successivamente decideranno di giungere fino al borgo e di conquistarlo. Le predico sin da ora che non andrà a buon fine e che entro un mese saranno costretti a levare l’assedio e a tornare, per salvare Narvic da un assalto di mercenari del nord.”
Il cavaliere, interdetto, rimane senza parole.
“Non si preoccupi, Lord Siniscalco,” dice Hektar. “Mi bastano vitto, alloggio, un cavallo in più e qualche informazione per conto del Duca: anche gli incantesimi di Preveggenza e Chiaroveggenza hanno i loro limiti.”
Un’ora dopo il mago ed il valletto sono di nuovo fuori dalla cittadella, stavolta a piedi. Cavalli e bagagli sono rimasti nelle scuderie della Cittadella.
“Mastro Hektar,” rompe il silenzio Galman. “Mi piacerebbe sapere come funziona la divinazione.”
“Te ne rivelerò il segreto, allora,” dice Hektar. “Quando siamo giunti ho osservato con attenzione il campo di battaglia. Lo scontro è accaduto da poco, non ci sono quasi soldati in città ma è indubbio che abbiano vinto, oppure il borgo sarebbe a ferro e a fuoco. Conoscendo il modo di fare di questi baroni, ho immaginato il resto.”
“Ma... l’esito dell’assedio?”
“Semplice logica, Galman. E un pizzico di azzardo. La gente tende a ricordarsi solo i dettagli che indovini, quindi se anche dovessi sbagliare qualcosa non farebbe differenza per la mia reputazione. Soprattutto quando ho premesso che la chiaroveggenza non funziona sempre bene. Comunque è solo ragionamento: questi signori si fanno guerra da anni, tempo un mese e gli altri baroni invieranno dei mercenari a spezzare l’assedio o ad approfittare dell’assenza della guarnigione per prendere Narvic ed il barone sarà costretto a rientrare. Anche non fosse così, l’inverno sopraggiungerà entro due mesi e le montagne di Zaklia saranno fredde e dure, più per gli assedianti che per i difensori. Inoltre, dopo una battaglia delle dimensioni del campo qua fuori, non credo il barone abbia i numeri per prendere Zaklia d’assalto. Per quanto riguarda le truppe, domani raggiungeranno un gruppo il cui unico scopo sarà quello di rallentarli con un’imboscata e che si disimpegnerà appena possibile.”
“Come fa a esserne certo?”
“E’ quello che farei io se fossi al loro posto, ed è quello che suggeriscono i trattati militari,” gli risponde il mago. “Qualche buon sergente d’arme è certamente sopravvissuto, non ho visto i resti di una disfatta decisiva, la fuori.”
“Ma... la magia?”
“Anche questa è magia, caro Galman. Non hai visto l’espressione del Siniscalco? Cosa pensi farà domani? Se tu fossi lui e un mago tra i più importanti ti avesse previsto quanto gli ho riferito, che faresti?”
“Io manderei un messaggero al barone per dirgli della divinazione,” dice il valletto.
“Precisamente. Vedi? Anche tu puoi praticarla, hai appena previsto il futuro.”
“Ma... a che scopo gliel’ha detto?”
“Perché così l’ho impressionato, lui ha fatto senza discutere tutto ciò che gli ho chiesto, mi ha dato le informazioni che mi servivano e infine contribuirà alla mia fama. Oh,” il mago si interrompe con un’esclamazione. “Siamo arrivati a destinazione.”
I due si fermano davanti a un’insegna di legno dipinta di rosso. E’ parzialmente sbrecciata e sovrasta una porta di legno dalle vetrate gialle, aperta. L’uscio è comunque coperto da un tendaggio rosso ed una bruna ragazza seminuda dai capelli corti è sullo stipite della porta.
“La miglior casa di piacere di Narvic, viaggiatori,” tenta di attrarli con voce suadente, mostrando le sue grazie con fare provocante. “Le ragazze più belle, il cibo più buono, l’idromele migliore.”
“E i prezzi più alti,” conclude il mago. “Sono già stato qui. Ma oggi non posso entrare, l’inviato ducale deve salvare le apparenze. Voglio però sapere dove posso trovare Finn Bo Tailteann, l’attuale Lenone della Corporazione.” Contemporaneamente alla richiesta Hektar fa scivolare una moneta d’oro nella mano della ragazza.
“Finn è qua, all’ultimo piano dell’edificio. Usate pure l’altro ingresso, sull’altro lato,” risponde prontamente, facendo sparire la moneta d’oro nella scollatura.
Voltato l’angolo i due vedono la porta dell’ingresso della Corporazione. Di fronte ad essa un uomo con la faccia sfregiata e lo sguardo da tagliagole è di guardia.
“Devo parlare con Finn Bo Tailteann,” dice Hektar.
“Chi sei, mago?” chiede l’uomo di guardia.
“L’inviato ducale, il mago Hektar Henriksdal,” si presenta il grasso mago, pettinandosi la corta barba grigia con una mano.
Dopo qualche istante i due vengono fatti salire. Finn Bo Tailteann è un uomo sulla cinquantina, magro e simile a una faina, non dissimile dal tagliagole di sorveglianza all’ingresso.
“Hektar il mago,” dice l’uomo. “A cosa devo la tua visita? Di solito entri dall’altra porta, quando sei in città.”
“Vengo subito al dunque, Finn,” dice il mago, massaggiandosi la barba. “Devo acquistare una schiava.”
“Chi vuoi? Ne abbiamo di valide, di belle e se prendi la vecchia ti faccio uno sconto. Fa bene le pulizie.”
“Mi serve la strega.”
“Non è in vendita.”
“Devo insistere, ma non è una questione di prezzo. Mille ducati?” offre Hektar.
“Mille? Per una schiava immortale bella e addestrata come lei? Non farmi ridere.”
“Non è davvero immortale. Solo molto più longeva di noi umani. Comunque fai tu il prezzo, e ti firmo una lettera di credito per le casse ducali. Ma non esagerare, non è bello scontentare il duca.”
“Il duca o te?” chiede Finn, seccato.
“Non conviene nemmeno mettersi contro di me,” dice il mago. “In questo caso potresti metterti contro tutti e due. Ma sarò ragionevole, capisco il tuo punto di vista. Facciamo un patto: ti offro duemila ducati a garanzia. Se la strega sopravvive alle necessità della mia missione te la riporto e mi ridai mille ducati. Cosa ne dici?”
Finn, il Lenone della Corporazione, pensa qualche istante. “L’offerta è ragionevole,” dice, sospirando. “Prepara la lettera di credito, la strega è tua. Tanto di questi tempi non ha molti clienti, la gente della città ha paura di lei, gli stranieri sono sempre di meno e i mercenari stanno lasciando tutti la città, ora che la battaglia è conclusa.”
Hektar si fa portare una pergamena ed un calamaio, che usa per scrivere due contratti differenti. “Metti il tuo nome qua sotto,” dice. “Questa è una dichiarazione che la ragazza è mia fino al termine della missione. E quest’altra, firmata da me, dice di pagarti mille ducati subito e mille nel caso la donna un tempo di tua proprietà dovesse morire.”
Il Lenone firma la dichiarazione, poi dice: “Vattela a prendere, è al solito posto. O vuoi che mandi qualcuno?”
“Mando il mio valletto, io non posso entrare di là, non oggi.”
Quando Galman entra nella Casa del Piacere, scorge delle alcove chiuse, dalle quali entrano ed escono ragazze svestite o nude con vassoi di cibo e caraffe di idromele. Da alcune provengono risate, da altre dei gemiti. Una dolce, gradevole musica soffusa aleggia nell’ambiente, flauto e mandola provengono da un’alcova più piccola delle altre, anch’essa chiusa da tendaggi.
La ragazza bruna all’ingresso lo scorta verso un’alcova aperta dove Liona, i capelli color del miele, sta sorseggiando del tè d’erbe. Galman la osserva, quasi incantato da tanta bellezza. La ragazza lo scruta con penetranti occhi grigi e improvvisamente il valletto si sente a disagio. La ragazza bruna si china verso Liona e le spiega del contratto. La splendida donna elfo inarca le sopracciglia, si alza e segue Galman all’esterno dell’edificio.
“Bene, siamo tutti qui,” dice il mago, vedendola. “Ora, ragazza, per favore,” aggiunge, rivolto alla bella brunetta dai capelli corti all’ingresso, “vorrei che mi procurassi dei vestiti da viaggio un po’ più sobri per Liona, se fosse possibile. Credo possano essere compresi nel prezzo, tutto sommato.”
La ragazza scompare all’interno del locale e ne esce, dopo qualche minuto, con un cambio d’abiti femminili.
“Non un granché, ma andranno bene,” constata criticamente il mago, osservandoli. Li porge a Liona, ancora in silenzio, e dice: “Rientriamo alla Cittadella e cerchiamo di farci una bella notte di sonno: domani mattina partiremo per il nord.”
(da "Il Signore dei Corvi", di Augusto Chiarle, in arte Karl Guthorm, per concessione dell'autore)
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