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Corvi (estratto da "Vita Artificiale")

Scrivo romanzi d'avventura. Ne ho venduti più di 16mila copie, per ora, grazie soprattutto ad Amazon (non mi faranno diventare ricco, ma sembra che piacciano). Ma scrivere non è facile, soprattutto per chi, come me, scava nelle emozioni per renderle "sincere", oneste, e si immerge nelle emozioni dei personaggi stessi (parafrasando il prezioso suggerimento di Hemingway, "per scrivere cose buone, siediti alla tastiera e comincia a sanguinare"). Alcune scene mi hanno messo a dura prova e (pur se mi rendono orgoglioso, a rileggerle, per il risultato ottenuto) sono state emotivamente intense, al punto che a volte dopo averle completate ho dovuto prendere delle pause anche lunghe. Un esempio pratico è questo capitolo (dal titolo "Corvi") dal mio romanzo d'avventura "Vita Artificiale", il quarto della serie "Le Ombre di Marte":




L’automobile si arresta nei pressi di un vecchio edificio sopravvissuto all’invasione, malandato e rattoppato come un abito vecchio.

“Guardi in che quartiere siamo,” dice il Tenente, mentre scendono dalla vettura. “Questa gente vive di stenti, lavorando duramente, quando anche ha un lavoro. La nostra ‘giusta causa’ ha strappato i loro cari agli affetti familiari, costringendoli a vivere nella paura di questo momento, in cui due carabinieri si presenteranno a casa loro a comunicarne la morte.”

“Odio questa incombenza.”

“Anche io. Ma il minimo di rispetto che posso mostrare alle famiglie è comunicarglielo di persona. Il Capitano delegava sempre a me questo ruolo da uccello del malaugurio, pensando di farmi un dispetto, ma io non farò altrettanto. Non ricorderò tutti i loro nomi, ma saprò quanti sono, quante famiglie piangono i propri cari. Qual è il nome della persona che stiamo cercando?”

“La prima della lista è Angela Dauphin, Route de Turin... Ecco, quello è il portone. Il morto si chiama Etienne, suo figlio minore.”

Di fronte al palazzo malandato alcune donne vestite di nero stanno chiacchierando, sedute alla luce del lampione, nella sera appena giunta. L’arrivo dell’auto di servizio le fa improvvisamente ammutolire.

“Sono vestite di nero, tutte già vedove. Guardi i loro volti, maresciallo, il terrore assoluto che siamo lì per loro. Ciascuna starà pensando ‘Dio, per favore, fa' che non sia qui per mio figlio’. Guardi i loro occhi sbarrati.”

“Quegli stessi sguardi vengono a trovarmi ogni notte da quando è scoppiata la guerra,mi creda,” aggiunge Scognamiglio. “Preferirei quasi essere al fronte che qui a fare il corvaccio. Mi toglie il sonno.”

“Allora sarebbe sua moglie a temere il mio arrivo, maresciallo, a scrutare con terrore chi scende dall’auto di servizio dei carabinieri.”

“Ha ragione. Ma non sopporto il peso di quegli sguardi impauriti. Preferisco quello carico di odio dei criminali, quello lo posso reggere, fa parte del mestiere.”

I due siavvicinano alle donne. “Angela Dauphin?” chiede Scotti. Quattro volti costernati si girano verso una quinta donna, anziana, i cui occhi chiari si stanno velando di lacrime.

“Sono io,” dice, con un filo di voce carico di coraggio, rassegnazione e disperazione. Poi chiede: “Qual è di loro?”

“Mi dispiace terribilmente di doverle comunicare che suo figlio minore, Etienne, è deceduto combattendo. Le porgo le mie condoglianze.” Scotti è davvero dispiaciuto.

L’espressione della donna passa dal timore dell’aspettativa alla disperazione della certezza. Il lavoro a maglia, che stava facendo con tale perizia da non aver nemmeno bisogno di guardarlo, cade in terra, abbandonato. Il grembiule di lino grezzo che indossa sulla veste nera, probabilmente ricamato con cura da lei stessa, viene bagnato dalle silenziose lacrime che fuoriescono copiose da quegli occhi avvolti da una tristezza infinita, il coraggio infine distrutto dal colpo d’ariete della realtà.

Nonostante abbia assistito molte volte a scene simili, il tenente Scotti sente una stretta afferrargli il cuore. Mentre Scognamiglio consegna il telegramma bordato di nero alla donna, sente che gli occhi gli si stanno facendo lucidi.

La vedova, analfabeta, passa la missiva ad una delle amiche che la legge ad alta voce, con qualche difficoltà:

“Con estremo rammarico siamo costretti a comunicare notizia della scomparsa nell’adempimento del proprio dovere del caporale Etienne Verger, di anni ventuno, deceduto eroicamente per la Patria nella difesa dei propri compagni in terra straniera...” La donna interrompe la lettura, la voce rotta.

Le mani delle donne abbracciano, accarezzano, tentano di consolare Angela Dauphin, vedova Verger, in un misto di sollievo, senso di colpa e di sincero dolore.

“Povera Angela,” dice una di loro. “Etienne non meritava questo, era così giovane.”

Come se il cielo stesso sia in lutto, alcune gocce cominciano a cadere, preannunciando che la notte sarà piovosa. Scotti aiuta la vedova Verger ad alzarsi e, con l’aiuto delle donne, l’accompagna in casa.

“Statele vicino,” dice alle altre vedove, nel lasciare l’edificio per proseguire nel proprio giro di cordoglio. “Non lasciatela sola, stanotte.”

“Starò io con lei,” gli dice una di loro. “Proprio non ci voleva. Se solo fosse stato quel farabutto di Jean-Louis a morire... Etienne era un ragazzo d’oro.”

Scotti accoglie con sorpresa quella dichiarazione ma è soltanto quand’è nuovamente in auto che finalmente associa correttamente questi strani dettagli.

Jean-Louis Verger... Possibile?

“Scognamiglio,” dice l’ufficiale dei carabinieri. “Non mi dica che la signora Dauphin è la povera madre di quell’uomo orribile.”

“Temo di sì, tenente. L’uomo fermato dalla signorina Neva è l’altro figlio della vedova Verger.” Scotti è stato così immerso nei propri pensieri da non aver fatto subito caso alla correlazione.

Mentre proseguono a spargere nefaste notizie di famiglia in famiglia, il tenente è di nuovo di umore cupo quanto la pioggia che cade di notte, i suoi pensieri tetri quanto un antico mausoleo abbandonato. Persino più del solito.

“Povera vedova Verger,” dice Scognamiglio, probabilmente immerso in pensieri analoghi. “Uno dei suoi figli è un brutale assassino, e come tale verrà impiccato. L’altro un eroe di guerra, virtuoso ma morto combattendo a vent’anni.”

Scotti non dice nulla. Dietro la storia di ciascuno, riflette, si nascondono infinite tragedie. Genitori che piangono figli morti in guerra, figli che soffrono per la morte di fratelli e familiari assassinati per pochi spiccioli. Bambini maltrattati o abbandonati, infanzie distrutte, talvolta scientemente ceduti o venduti a persone spregevoli. Derelitti che muoiono di fame o di stenti agli angoli delle strade, ignorati dai passanti. Ragazze stuprate nel buio dei vicoli o costrette a prostituirsi ma occasionalmente, anche peggio, violate in quello che dovrebbe essere il calore del proprio focolare domestico, forte sicuro che si trasforma in inferno privo di scampo. Madri che scoprono che i propri figli sono brutali assassini... Quanti, quali spaventosi abissi: nemmeno un drammaturgo potrebbe rendere giustizia a tutti, non basterebbero infinite opere, una per ciascuna persona al mondo vittima di tragedie personali.

“Ogni giorno veniamo a contatto col peggio che l’umanità ha da offrire,” dice Scognamiglio. “A volte vorrei fare un altro mestiere. Forse dormirei meglio, se facessi il pescatore o il commerciante.”

“La capisco,” gli fa eco l’ufficiale. “Anch’io a volte ho pensato la stessa cosa. Ma non so se riuscirei a dormire, sapendo che gente come Jean-Louis Verger infesta le strade della città, per quanto provi compassione per la sua povera madre.”

La nera auto di servizio procede nella notte piovosa, volando di nido in nido a consegnare notizie di morte.


(estratto da "Vita Artificiale", di Augusto Chiarle, per concessione dell'autore)



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