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Il pozzo senza fondo

Un giorno ti svegli e capisci che la tua esistenza è alla fine. Già l’aspettativa di vita te ne dà un’idea: io ho dovuto fare i conti presto con la statistica. Per chi soffre della mia malattia autoimmune l’aspettativa è 70 anni, molto meno che per le altre persone. È vero che è comunque il doppio dell’aspettativa che un uomo sano aveva solo un secolo o due fa. Eppure è lì. Allora ti chiedi come sarà, senza capire realmente.


Poi arriva un giorno in cui non ti importa più davvero di quella cifra fumosa, perché sai che la tua aspettativa si è ridotta a quel giorno soltanto e che la corda che tieni tra le mani anticiperà la data fatidica rendendo futile ragionare sull'aspettativa, che presto sarai nient'altro che un ammasso di immondizia organica da smaltire che penzolerà da un cancello, da un balcone o da un albero.

Lo sai, lo hai calcolato, perché sei metodico e hai messo le cose a posto.


A differenza di chi non ha intenzione davvero di uccidersi, tu non l’hai gridato al mondo. Tu non vuoi essere salvato, perciò l’hai tenuto nascosto fino all’ultimo momento, dietro sorrisi e battute, proprio perché nessuno potesse fermarti. Qualcuno ti ha visto giù di morale, ma nessuno ha pensato che la tua sofferenza interiore fosse così profonda, nessuno ha davvero potuto percepire cosa si celava dietro i tuoi occhi. Nessuno sospetta, gli elementi verranno collegati solamente dopo, forse, ma non è importante, per te. Ecco come funziona.


Non ho paura ad ammetterlo: se in casa avessi avuto un'arma da fuoco, oggi sarebbero stati quattro anni che per vedermi si dovrebbe guardare una lapide in un cimitero.


Quel giorno tenevo la corda tra le mani, tre strati di cavo elettrico intrecciati per evitare che si potesse spezzare sotto il mio peso. Avevo calcolato, pianificato. Non avrei fallito, perché io non sbaglio, non faccio le cose superficialmente. Non volevo farla finita perché mi sentissi inadeguato o incapace o inutile.

Non ricordo con precisione cosa mi trattenne in quegli ultimi istanti di vita fino a cambiare decisione, sebbene mi ricordi perché la cambiai. Fu una questione di minuti, non di più, fu quell'esitazione ignota a fare la differenza. Ricordo però distintamente che da quel giorno la morte non mi ha più fatto paura. La morte, per me è un Nirvana fatto di nulla. Niente di niente, perché ritengo che siano tutte fiabe di chi la teme a imbastire altre storie. Mille racconti e miti fatti di spiriti, di paradisi e di inferi, diversi a seconda della tradizione, del credo, della personale paura del vuoto finale.


Ma io non ho bisogno di favole.


Io sono cosciente che dopo c’è solo putrefazione e nulla. Io mi fermo e il resto va avanti, incurante di ciò che mi è accaduto come noi siamo incuranti se tra i granelli di sabbia che spostiamo camminando su una spiaggia ci sia una formica. I miei atomi si trasformeranno, conserveranno, o altro, non mi interessa nemmeno quello.

Ciò che mi rende davvero "me" non sarà più.

E non mi fa paura.


Mi farebbe paura trascorrere decine di anni con lo sguardo vacuo rivolto al soffitto, quello sì, perché l'ho visto accadere ad altri. Il trauma che ha rimosso quel timore del balzo finale e che forse mi ha spinto sull’orlo di questo baratro, però, mi ha tolto ogni paura del nulla. Mi ha lasciato il terrore per qualcosa di diverso, di un inferno tangibile, fatto di immobilità e sofferenza.


Mia madre era una donna mite ma energica, un guerriero coraggioso e sorridente che faceva decine di chilometri di notte da sola in bicicletta nel nulla per andare a lavorare. O che, in anni in cui le donne erano considerate esseri inferiori, girava per una città in preda alla criminalità, la città grigia della banda Cavallero, con rapine e sparatorie quotidiane, e lo faceva da sola, per vendere casa per casa, un lavoro duro e difficile. Ecco, quel suo mondo, con l’età ha cominciato a farsi sempre più piccolo. Non più l'Italia, non più una città ma una casa, poi solo una stanza, infine un letto. Una mente brillante che risolveva rebus alla prima occhiata non riusciva più a capire il significato di parole semplici. Occhi intelligenti divenuti vacui per la gran parte del tempo.


Ecco cosa mi spaventa davvero: diventare prigioniero di un involucro in decadimento lento, inesorabile, senza sbocchi eppure senza un limite, un inferno che può prolungarsi per anni, a volte decenni.

Non è certo la morte che mi spaventa.

Oh, no.


Eppure quel giorno in cui tenevo un cappio tra le mani, realizzato attraverso settimane di pianificazione, intessuto e progettato con la cura di chi non intende fallire e che sa esattamente quello che fa, qualcosa all’ultimo minuto mi ha distratto. Una richiesta d’aiuto cui non ho saputo dire di no. Perché se egoisticamente sarei fuggito, il senso di responsabilità del mio personale bushido mi convinse che potevo farlo domani, che quel giorno avrei aiutato qualcuno che contava su di me e che non potevo abbandonare, cui non volevo infliggere quella decisione nonostante avesse involontariamente contribuito a farmi soffrire al punto da non temerla.

Anche se questo atto non mi dava sollievo.

Mi annientava dentro, perché io non volevo andare un solo minuto oltre, perché tutto mi era intollerabile. Quel giorno, se avessi posseduto un’arma da fuoco, ne avrei messo la canna in bocca, puntando verso l’alto, per massimizzarne l’efficacia, e avrei sparato. Ma venni rallentato dalla lentezza inesorabile di dover sistemare una corda, dando il tempo al mio padre morente di chiamare il mio nome. Di trattenermi.

Lui non seppe mai di questa cosa.


Quel giorno in più si è trasformato in due giorni, poi dieci. Il cancro se l’è portato via tra dolori atroci in un mese. Un incubo più breve rispetto a quello che colpì la mamma, sebbene spaventosamente fin troppo lucido, terminato il quale la mia voglia di smettere di soffire, di non sentirmi una presenza senza scopo, non era minimamente scemata. Ma era trascorso del tempo e quell'attimo terminale non era più identico, tassativo, impellente come prima.


Cosa mi ha trattenuto? Cos'è intervenuto a cambiare le cose?


Una parola. Quella giusta. Una qualunque, probabilmente, non una in particolare. Udita da una persona le cui sofferenze io ancora non conoscevo e con cui non avevo pianificato certo di parlare, in un posto che non mi piaceva davvero, con alcolici scadenti e arredo di Ikea, in cui persone decadenti con indosso una maschera figurativa a celarne personalità, dolore, sofferenza, debolezza, anche crudeltà, interagivano con altre talvolta represse e talvolta disagiate come me, come dei piccoli Bukovsky senza talento che osservavo con antropologico sgomento. Un luogo in cui andavo solo per continuare a farmi del male, per autodistruggermi smettendo di pensare per qualche ora. Quello però, in quel contesto, fu sorprendentemente il luogo giusto per tornare a guardare avanti, allontanare la data e riportarla all'aspettativa di vita della statistica.


In quella sera che doveva essere la mia ultima sera mi imbatto in una persona che mi sembra vera in mezzo a tanti manichini con la faccia di gomma e silicone. Ho una strana conversazione, una di quelle cose quasi chimiche che al ricordo mi fanno ancora bene sebbene non ne rammenti che una o due parole in tutto, nemmeno le più significative o importanti, sentite da qualcuno con una storia dura alle spalle che ancora non intravedevo nemmeno lontanamente.


Così quella corda è rimasta lì, in un armadio, a ricordarmi cosa stavo per fare. Ogni tanto la guardavo, la rigiravo tra le mani aggrottando le sopracciglia, chiedendomi se c’era qualcosa di diverso in me, se davvero ora volevo vivere o se tutto era solo rimandato, se continuo a non temere il grande passo. La risposta è che tutt’ora non mi importa nulla di vivere o morire, tutt’ora non ho più provato un solo attimo di paura per la mia incolumità, sebbene ne abbia avuta per quella di altri a dimostrare che non è cinismo o disprezzo della vita ad affliggermi.


L’ho gettata via, quella corda, soltanto tre anni dopo quel giorno in cui era ormai intorno al mio collo.


Da tanto non ripenso a quel periodo. Non l'ho rimosso, sono solo andato avanti. Ma oggi mi sono di nuovo sentito così male. Mi sono detto “posso farlo senza che nessuno se ne accorga, in un posto dove mi troveranno degli sconosciuti solo dopo diversi giorni”. Un pensiero morboso, quel genere di cose in cui ricadi quando sottovaluti le cose, quando menti a te stesso dicendo "sono forte, non mi capiterà mai" (o mai più).

Certo.

Credici.

Non lo negherò: non è, in fondo, una sensazione brutta. È una sensazione tremenda se vista da fuori, ma da dentro è quasi quel traguardo di libertà finale che prova chi vince un’olimpiade. Ed è questo fatto che lo rende davvero tangibile e tremendamente suadente: non ti fa paura ma è l’opposto.


A guidarmi in quel pozzo dalle pareti lisce, che non potresti scalare nemmeno se lo volessi ma che comunque da cui non vuoi davvero uscire, sono state tante cose. Disillusioni, soprattutto, e solitudine… Ecco, la solitudine è in effetti devastante. Tanto che molte persone si accompagnano alle persone sbagliate pur di non rischiare di affrontarla. Stanno con lupi violenti, aguzzini bastardi, si fanno umiliare e stuprare pur di non sentirsi soli. Io alla solitudine pensavo di aver fatto l’abitudine, ma è infida e quando credi di aver trovato qualcuno per sconfiggerla e quel qualcuno invece non la vede come te, ecco che devi ricominciare ad affrontarla daccapo, come la prima volta. La sensazione di solitudine è brutta e sebbene condividere la propria vita con la persona sbagliata sia peggio (e so di cosa parlo), ero di nuovo sull’orlo di quel baratro.


Stavolta a tirarmene fuori sono state un banale quanto saporito misto di cioccolata, caffè, esercizio fisico intenso nei boschi e tempo. Chimica e istanti per farla agire. Strano, semplice e incredibile quanto quella conversazione di qualche anno fa. No, niente di poetico, niente di profondo. Quasi banale, direi. Ma è servito ad andare avanti un'ora in più e guardare fuori da quel pozzo tornato a essere la solita buca in cui tutti prima o poi inciampiamo, soprattutto quando crediamo di esserne diventati in qualche modo immuni. Quella buca che qualcuno, che la guarda da fuori, etichetta con “sei solo giù di morale”.

Solo. Certo. Facile. Superficiale. Banale come il male che inconsapevolmente sminuisce quel pozzo infinito in cui cadi e da cui sorprendentemente esci di nuovo senza nemmeno sapere esattamente come, almeno non in modo cosciente.


Tanti sopportano cose peggiori delle mie. È oggettivo, innegabile, ne sono consapevole. Ma il nero pozzo della depressione non teme confronti. Niente ti prepara ad affrontarlo.


Così è per caso, grazie a una tavoletta di cioccolata e alla consapevolezza che gli zuccheri aiutano chimicamente se sono sopravvissuto una seconda volta alla mia personale apocalisse. Consapevole che se vorrò evitare di finirci di nuovo a breve dovrò affrontare dei cambiamenti dolorosi, che dovrò rammentare a me steso che credersi immuni è mentire a se stessi. Cose che, sotto l’influsso di zuccheri ed endorfine (ed è già davvero notevole che non abbia bisogno di roba più pesante), almeno oggi posso tornare a vedere per quello che sono, come le persone normali (se "normale" è davvero qualcosa che esiste e non solo un'etichetta, come sospetto).


Sono stato lasciato, ho sofferto per compagne che amavo profondamente e che mi hanno annientato sebbene fossero indubbiamente proprio tra quelle persone sbagliate di cui parlavo prima. Ho sofferto, a volte per mesi, anni, perché quando mi dedico a qualcuno, io amo profondamente. Senza essere possessivo ma senza negarmi. Come un'ostrica che non vuole aprirsi ma che una volta aperta rivela un succulento bivalve. A chi piacciono certe cose, altrimenti scegliete un paragone differente, non è importante.


Perciò l’esperienza mi fa riconoscere certe cose, da quando ho smesso di mentire a me stesso. Perché è proprio ciò che cerco di fare: non mentire a me stesso. Non negare i problemi, non negare le emozioni, rifiutare quelle cazzate da macho che dicono che mostrare vulnerabilità è debolezza. Io non ho paura di affrontare la mia vulnerabilità. È il primo passo verso quella vetta, interminabilmente distante, che è non farsene travolgere.


Io nego con fermezza la superficialità di chi dice “devi tenere duro” come se fosse facile o possibile. Non è mai facile, a volte non è nemmeno possibile. Nego con fermezza l’utilità di sentirsi dire “è sbagliato togliersi la vita”, perché sebbene io non abbia alcun desiderio di morte sono cosciente che la mia volontà non è quella di diventare un vegetale che marcisce in un letto e che l’unica alternativa sarà decidere in merito quando ancora non lo si è, scommettere quando è il momento migliore per non sprecare “anni buoni” per evitare quell’inferno.


No, io non dò pregio a quelle dichiarazioni dette da chi non ha provato queste emozioni o che le nasconde o nega dietro fragili muri di cartongesso da cui filtra amletica puzza di marcio. Io quell'odore dentro di me non lo voglio, io voglio conoscere, perché conoscere non dà certezze ma dà informazioni e le informazioni possono aiutare. Così come condividere. Un amico, un gruppo d'ascolto, uno sfogo con qualche sconosciuto. A me sono servite tutte e tre queste cose, ad esempio. Nessuna è stata risolutiva, ma tutte si sono mostrate utili. Ho cercato anche aiuto da professionisti, ma era agosto ed erano in ferie. Mi rispondevano segreterie telefoniche. Non è certo di grande aiuto, lasciatevelo dire, quando si è in certi frangenti.


Spesso, dopo tanto esercizio, riesco a non mentire a me stesso (non è facile come potrebbe sembrare a parole, è un meccanismo di difesa facile come il lato oscuro della Forza). Proprio perché non mento a me stesso, quando ci riesco, prendo coscienza di quanto vicino io sia stato a diventare una foto su una lapide (o qualsiasi cosa capiti, perché in realtà di cosa accadrà alle mie spoglie dopo che la vita mi avrà abbandonato non mi interessa minimamente: che mi divorino animali, pesci, vermi, che mi bruci un inceneritore o cosa, per me non ha importanza, perché io sono fermamente convinto che dopo non ci sarà nulla per cui mi importerà cosa è stato del mio corpo, da vivo divenuto solo un rifiuto speciale organico ingombrante; niente religioni, oroscopi, fantasmi, spiriti o spettri. Io vedo il mondo con altri occhi e lo ritengo splendido così, senza superstizioni da inventare per mitigare paure ancestrali).


Ogni tanto quella strana bestia però torna, mi suggerisce con tono suadente che tutto potrebbe finalmente avere fine, che troverei pace dopo un po’ di sofferenza dalla durata limitata. Quando accadrà, se non saprò riconoscerla e affrontarla, non chiederò aiuto, non lo griderò al mondo. Lo farò e basta.


Ma non è oggi e non sarà a breve. Perché pur se sono caduto nel pozzo, sorprendentemente persino per me mi sono rialzato ancora una volta. E sono uscito, l’ho guardato, l’ho riconosciuto e ho detto, come in un vecchio film, “un giorno, ma non ancora”.


Il mio non è un grido d'aiuto, non fraintendetemi: è una riflessione onesta, schietta, che vuole far comprendere a chi non si è mai sentito davvero depresso cosa significhi davvero per chi invece è arrivato lì. Non sono un eroe, non sono una vittima. Sono solo uno qualunque che ha avuto un'esperienza nemmeno estrema come invece sono tante altre.

Non so quanti comprenderanno.

Ma potrebbe bastarne uno (o una) soltanto e sarebbe sufficiente, per me, se sarà d'aiuto.




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